martedì 10 giugno 2014

Muta la trama, cambia l'intreccio, eppure i fili rimangono i medesimi...


Era ritornata a casa con addosso l'odore di quel cagnaccio. Neal l'aveva avvertito da subito, mentre lei scivolava dall'ingresso alla cucina. Non si era accostata subito a lui, era filata dritta in bagno. Si era lavata, a fondo, e tolti i vestiti aveva indossato la consueta felpa. Solo allora si era spostata da lui, che continuava con noncuranza a giocare alla playstation, poggiandogli un bacio morbido sulla tempia. Non aveva neppure fatto il giro, limitandosi a sporgere oltre la spalliera del sofà, per un contatto breve e fugace. In silenzio, si era incamminata verso la cucina, per schiaffare nel forno due tre porzioni di lasagne, riguadagnando poi la strada per la camera da letto. Ricordava, in un certo senso, quei venti frettolosi di Primavera, che non hanno davvero tempo per fermarsi in un unico punto, intenti come sono a impollinare il mondo e a ribaltar soffioni. Si era lasciata cadere, con la grazia di un sacco di patate, sul copriletto colorato raggomitolandosi in posizione supina. I guaiti di Khaleesi continuava a sentirli anche adesso, e un incredibile senso di nostalgia e tristezza le stringeva la gola in una morsa cattiva. Non aveva voglia di fare altro che stare li, a guardare oltre la finestra, rimuginando sul fatto che Blaer e Tristen l'avrebbero trattata bene. Di sicuro, quella casa con quell'ampio giardino, era meglio per lei del retro di un negozio, o di una ricca villa in cui restare sepolta di giorno per uscire sotto la notte. Sospirano, Kim socchiude gli occhi.

Quando li riapre, dev'essere passata circa mezz'ora. C'è Neal, sdraiato accanto a lei, lo sguardo fisso di chi attende solo che lei frigni per prenderla in giro o borbottare che tutta quell'idea del cane - lui l'aveva predetto - sarebbe stata deleteria. Davanti a loro, troneggiava una teglia di lasagne. E due forchette. Senza dire niente, Kim aveva impugnato la sua e cominciato a mangiare, seguita a ruota dal marito. E sebbene nessuno dei due avesse troppa voglia di ciarlare, la Precettrice allungò comunque la gamba a carezzare quella del Mannaro. Un contatto gentile e piacevolmente fresco, in contrasto con quella carne maschile e sempre cosi dannatamente bollente. Qualcosa che anche lui aveva ricambiato, in uno strusciarsi lieve che valeva molto più di mille chiarimenti.



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"Kim, sei uscita ore fa' con la tua amica Jeanne e non sei ancora tornata a casa. SI PUO SAPERE DOVE CAZZO SEI? 
questo stupido tatuaggio non funziona neanche per un cazzo e neanche il tuo fottuto telefono, quando torni a casa ti scortico viva."

"KIM non sto' scherzando, il telefono mi da' non raggiungibile si puo sapere dove cazzo sei andata a mangiare? FRA LE ALPI? Mi spieghi per che cazzo mi sono fatto fare una stronzata sul braccio se poi NON FUNZIONA AD UN EMERITO CAZZO? Spiegamelo perche io davvero non ci arrivo... ma sai io sono un lupo, tu sei quella intelligente. TANTO INTELLIGENTE CHE RIEMPIRO' UN INTERA VASCHETTA CON IL TUO CERVELLO IN SALAMOIA. 


Ora ti vego a cercare, nasconditi per bene."





Siamo finite nella Londra del 1600. Ora, lo so che non è proprio intelligente e credibile come inizio di un discorso volto a spiegare, al tuo arrabbiatissimo e smadonnante marito, perchè sei rimasta per ore fuori casa senza risultare rintracciabile magicamente o tecnologicamente ma...è la pura verità. Ci siamo perse mentre cercavo quel dannato sexy shop, e sotto al diluvio universale abbiamo visto Aurore che parlava con una bambina. Aurore è la commessa del MoonGoddess, un amore di ragazza educata e gentile, e non era di certo lei a preoccuparmi quanto la tizia con cui si intratteneva. Di una bellezza surreale, se ne stava li tranquilla a raccogliere margheritine dentro un'aiuola, e spire bluastre si propagavano dal punto in cui stava, diffondendosi per l'asfalto lungo i rigagnoli d'acqua creati dal maltempo. Prima ancora di capire chi o cosa fosse, quei tentacoli si sono animati ulteriormente, arraffandoci alla caviglia e proiettandoci in un'altra dimensione spazio temporale. Solo che non ero più con Jeanne, nossignore. Mi trovavo in un teatro, e di fronte a me, vestita con abiti dell'epoca e con lunghi capelli biondi annodati in una lussureggiante treccia, c'era Zhora. Vista da fuori, la scena era abbastanza esilarante. Se non fosse che io ero circondata da attori infoiati, e vestita come una puttana d'alto borgo. Ecco, sinceramente, non so cosa ci trovasse di bello la gente nell'andarsene in giro con chili e chili di stoffa senza neppure una fottuta tasca. Cosi come sono certa, dall'olezzo di rose che emanavano quei tizi, che l'acqua doveva essere un bene tutto da scoprire, oscuro ai più. Insulti a parte, sono riuscita a salire sul palco per avvicinarmi all'unico mio legame con il presente. Zhora. La pantera, dal canto suo, è stata cosi carina da non pensare solo alle sue chiappe e tenermi il gioco mentre recitavo non so bene cosa prima di afferrarmi per il polso e dileguarci fuori dal teatro. Con tre splendide, provvidenziali, monete d'argento. E mentre io realizzavo che probabilmente non avrei mai più rivisto mio marito, se non avessi trovato una soluzione al problema, e lei aguzzava il tartufo per rintracciare l'odore di Jeanne in quel caleidoscopio di puzze e sentori...siamo tornate. Cosi come eravamo apparse, siamo ricomparse. Di nuovo vicine, di nuovo a BonTemps. Mai prima d'ora sono stata cosi felice di sentirmi addosso la pioggia di questo piccolo, delizioso, buco di culo della Louisiana. E di riabbracciare Neal. Che ha urlato, tanto per cambiare, e fatto volare in aria tre quattro soprammobili. Ma che alla fine era terribilmente sollevato, di riavermi a casa. Tanto quanto io sono stata sollevata, qualche minuto più tardi, di riaverlo di nuovo dentro. Di tanto in tanto, quando ce ne stiamo insieme senza dire nulla e ci afferriamo le mani per giocare con le dita, quando ci posiamo gli occhi addosso con la cura di chi è consapevole di aver davanti una cosa bella, mi sembra come se tutto ciò che abbiamo fosse già previsto, già deciso. Come se una tale complicità, una tale intimità, fosse innata e non potesse andare diversamente tra noi due. Ho l'impressione che fossimo destinati a stare insieme, in ogni luogo, in ogni tempo. Che ci saremmo trovati, e voluti, e presi anche in epoche diverse, e in diversi mondi. Ma questi, dopotutto, sono solo pensieri bislacchi tra una palpata di culo ed una sua risata. Niente di più, niente di meno

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Mesopotamia - 3500 a.C  - Età del bronzo

Kimani se ne stava inginocchiata di fronte alla propria capanna. Su di una grande pietra rotonda aveva versato una manciata di semi, e utilizzando una pietra più piccola e levigata andava, ad un ritmo costante e regolare, andava a triturarli fino ad ottenere una polvere piuttosto sottile. I movimenti concentrici che, con entrambi i palmi delle mani, andava ad imprimere al proprio pestello servivano, in parte, a scaricarne la frustrazione. Da pochi giorni appena, Nassor l'aveva presa con sè come sposa. Era avvenuto tutto in maniera molto semplice, in realtà, perchè in quei tempi non si usava certo una cerimonia. L'aveva vista bagnarsi alla fonte, di ritorno dalla caccia, ed era rimasto per un pò zitto e buono a fissarla emergere fino al punto vita dall'acqua, intenta a spruzzarsi spensierata e felice con le altre donne al fiume, apprezzandone il suono della risata. C'era un che di selvatico, in lei, e gli occhi azzurri si caricavano di un'ondata incredibilmente fredda e sprezzante quando qualcuno osava spingersi oltre un certo limite con lei. Qualcosa che riusciva, ogni volta, ad eccitarlo terribilmente. Era davvero molto bella, e spesso gli uomini si erano avvicinati per provare ad accoppiarsi, nel tentativo di farne la propria compagna. Aveva respinto tutti a sassate, uno dopo l'altro. Ma, quel giorno, quando Nassor le si era avvicinato ricoperto di sangue e pitture tribali, e lei si era girata a guardarlo mentre le altre donne si allontanavano via, qualcosa era scattato. Lei era uscita dall'acqua, provando ad allontanarsi, ma lui l'aveva inseguita. C'era stata una lotta, ovviamente, che avevo visto Kimani mordere e scalciare, e opporre una resistenza spietata. Ma alla fine come da tradizion era stata posseduta, e diveniva agli occhi di tutti la sua compagna. Si era trasferita con lui nella tenda, e da allora gli teneva il broncio. Odiava quel marito, con tutto il cuore. Lo odiava perchè era riuscito a batterla, e perchè era forte. Lo odiava perchè il modo in cui l'aveva presa le era piaciuto, terribilmente, e questo le causava non poco disappunto. Ne odiava i lineamenti virili, il prestigio che aveva nella tribù. Kimani lo odiava, dunque, senza sapere che in realtà quello poteva benissimo chiamarsi amore. L'amore di una persona orgogliosa e cocciuta che aveva perso, nel giro di qualche ora passata tra l'erba a farsi possedere con una certa ferocia, tutta la sua libertà di donna nubile. Il rumore dei passi, dietro di lei, non era comunque riuscito a turbarla. Sapeva che il marito era tornato e che la stava guardando, eppure continuava a triturare cereali, i seni che penzolavano nudi nel vuoto, la bocca piegata in una smorfia arrogante e stizzita. Finchè lui non si era inginocchiato, portando le mani al collo, e cingendoglielo con una collana. La donna aveva smesso di muovere la pietra, abbassando gli occhi a contemplare un delizioso monile. Denti affilati, pietre e biglie di legno ne ornavano il filo. Al centro, una piccola placchetta di rame, qualcosa di estremamente caro. La riconosceva. Al mercato l'aveva ammirata per tanto tempo, ma costava davvero troppo e ci aveva rinunciato. Nassor aveva dovuto spendere chissà quanto per barattarla, e lo aveva fatto per lei. Kimani rialzò il viso, fissando gli occhi in quelli del marito, che le sorrideva con espressione sorniona, da guerriero trionfatore. Timidamente, aveva sorriso anche lei. Poi lo aveva preso per mano, alzandosi in piedi, tirandoselo fin dentro la capanna. Il resto del pomeriggio lo aveva trascorso su di lui, a convincerlo - sbattendoglieli davanti con noncuranza - di quanto i suoi seni fossero la cornice ideale per quel particolare monile.

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Roma - 108 D.C -  Colosseo

Era stato trasportato in una Domus lontana, perchè necessitava di riposo. Il combattimento gli aveva portato via tanto sangue, ma il medico era molto ottimista. Al momento, due serve gli stavano ripulendo il sangue di dosso in eccesso, con unguenti profumati ed acqua. Naevius riposava sdraiato su un comodo letto, agi che un normale gladiatore non si sarebbe potuto permettere se non avesse avuto come amante Cinna, giovane moglie di uno dei più potenti - e vetusti - Senatori di Roma. L'aveva visto cadere a terra, durante la battaglia, il petto squarciato una ferita profonda e per un attico il panico era dilagato in lei che, con terrore crescente, non aveva saputo guardare oltre. Aveva dato disposizione che l'uomo venisse trasportato in un alloggio tranquillo e controllato dal proprio medico di fiducia. Poi, come di consueto, aveva atteso il calare delle tenebre. Faceva ora la sua comparsa nella stanza,  abbassandosi il cappuccio della mantella e rivelando alle donne la bellezza del proprio profilo, la ricchezza dei monili e delle vesti che le ornavano il corpo. "Lasciateci soli" e non era una richiesta, ma un ordine. Si era avvicina al lettino, prendendo una pezza per poter curare lei stessa quel corpo. Una vistosa cicatrice ornava lo sterno, e gli occhi di lei vi si erano soffermati sopra con una certa riluttanza "Non sarò più di tuo gradimento, Cinna?" era stato lui a parlare, riaprendo gli occhi e sospirando. Era una domanda retorica, in realtà, ma lei aveva sorriso e si era chinata a porgere un bacio su quelle labbra calde di febbre, umide di stanchezza "Questa vita, senza di te, non sarebbe più di mio gradimento" si era limitata a mormorare, poco prima di baciarlo. La donna ricca, potente e raffinata che aveva fatto il suo ingresso nella stanza si era, poi, sdraiata accanto a lui abbracciandolo con una certa tenerezza "Guarirai, e quando sarai guarito fuggiremo via da questa città e dai suoi tristi ricordi". Incurante del fatto che lui le stesse inzozzando le vesti, gli aveva consentito di carezzarla, di rimanere fermo li sulle sue labbra con la propria bocca. Sarebbe stato difficile, certo, e complicato. Forse non ne sarebbero usciti vivi. Ma sarebbero stati insieme. Ed era questo, ciò che contava.

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Tortuga - 1650 A.C - Locanda del Gatto Morto

Nantès era furioso. Giorni di pianificazione per assaltare il piccolo ma fiorente porticciolo di Las Speranzas, per poi arrivare li e scoprire che qualcuno era arrivato prima di lui. Aveva spalancato la porta della locanda con un calcio, venendo sin da subito immerso nell'atmosfera densa e calorosa che solo un luogo pullulato da pirati, ubriaconi e puttane poteva offrire. La taverna era rischiarata dalla luce delle torce ad olio, e li dentro si mescolavano l'olezzo del vomito e l'afrore dell'alcol, il sudore e lo sporco dei marinai che vi soggiornavano, il sentore posticcio delle prostitute che utilizzavano fragranze forti per coprire da dosso sentori di sperma, calura, incuria. Gli occhi azzurri del pirata scivolarono silenziosi tra la folla, individuando all'interno del locale la figura elegante di Kim. Se ne stava seduta ad un tavolo, assieme a brutti ceffi putridi almeno quanto la camicia che portava indosso. Teneva nella destra delle carte stinte, e nella sinistra il bicchiere di tequila "Pedro ti sto dando ascolto, ma se usciamo fuori di qui senza la grana ti allargo il buco del culo a colpi di pistola". Non era di certo una signorina per bene, poco ma sicuro. Era un pirata, uno dei migliori. Figlia di pirati, si era guadagnata la fiducia dei suoi uomini un assedio dopo l'altro. Sprezzante, con il resto del mondo, era però un ottimo capitano di quelli che sanno quando essere severi  e quando lasciar correre. Nantès si era diretto al tavolo, e lei aveva fatto appena in tempo a sollevare gli occhi su di lui prima che ribaltasse il tutto con un altro poderoso calcio. Poi, la rissa era iniziata.
Un'ora più tardi, l'aveva trascinata per i capelli portandola alla stanza superiore della locanda. Con molto poco riguardo l'aveva scaraventata dentro, chiudendo la porta  a chiave e cominciando a gridare "Era il mio..." "Era il tuo un cazzo! Sei arrivato tardi" "Avevi meno navi" "Ma io sono più abile" "Sei solo una stronza che sfrutta per sè le cose che sente mentre..." "Siamo patta, Nantès. La scorsa volta mi hai fregato tu, ora ti ho fregato io. Ti rode il culo, tesoro?" Lui si era avvicinato al letto, spintonandocela sopra. Erano entrambi pesti, la guancia di Kim si stava gonfiando, e lui aveva un'occhio nero. "Lasciami!" "Sta zitta!" le mani l'avevano spogliata, frettolosamente, mentre lei scalciava. Poi, d'un tratto, si era fermato. Sapeva che era stata ferita,  e si era chinato a guardare quel busto fasciato, una macchia rosa di sangue all'altezza del punto in cui aveva ricevuto il proiettile. Anche lei si era quietata, in parte, rimanendo sdraiata a farsi contemplare ma conservando uno sguardo rabbioso e selvatico negli occhi. Sotto i vestiti lerci, sotto le cicatrici, sotto le ferite c'era l'idea di una donna che riusciva a farlo letteralmente impazzire. Le mani le avevano accarezzato le bende, con delicatezza "Non farai più niente, da sola", aveva mormorato, prima di spogliarsi a sua volta, e sdraiarsi accanto a lei. La lotta era continuata, in un altro modo, un modo che entrambi riservavano esclusivamente l'uno all'altra. Era stato cosi, dal loro prima incontro. Urla e cazzotti in pubblico, gemiti e carezze nel privato. Si appartenevano in un modo strano, e quegli istanti in cui non erano per mare e dividevano il tempo insieme parevano comunque riuscire a farli sentire liberi  e felici. Qualche ora più tardi, dopo essersi sufficientemente consumati, Kim giaceva insonnolita sul suo petto mentre Nantès le carezzava i capelli. Sollevò la testa di poco, per guardarlo negli occhi, seria "Non farò più niente neppure in compagnia, per un pò di tempo" lui aveva abbassato su di lei uno sguardo perplesso, aggrottando la fronte "Che intendi?" E lei non aveva detto nulla. Ma gli aveva preso la mano, spostandosela in basso, sul ventre. Lentamente, la fronte dell'uomo si andava rischiarando mentre un sorriso incerto appariva su quelle labbra arse dal sole, bruciate dal mare. E dopo...dopo fu soltanto baci e risate, progetti e grida. Sotto, gli uomini continuavano a bere,  gridare, ballare. Sopra, qualcuno continuava ad amarsi.

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Parigi - 1879 - Periferia della città

Era un quartiere elegante, non il cuore pulsante della capitale, ma di sicuro uno di quei punti della periferia dove si poteva passeggiare certi  di trovare gentiluomini per bene, viali curati, ville ben tenute e dame di un certo ceto sociale. Di sicuro dava nell'occhio, dunque, quella mantellina nera che si aggirava furtiva per la strada non riuscendo ad occultare del tutto le crinoline di quella che era, indubbiamente, una gonna femminile. Camille teneva sotto braccio un piccolo cesto, e dopo essersi guardata intorno aveva spinto via un mucchio di edere che ricoprivano fittamente una recinzione. Si trovava nei pressi di una villa abbandonata ormai da tempo, e in quel punto la ringhiera presentava un buco sufficientemente grande da poterci entrare. Con cura, aveva risistemato l'edere che fungeva da tendina, recuperando il cesto e avviandosi verso il retro dell'abitazione. Non sembrava avere timore dell'oscurità che avvolgeva il luogo, nè del silenzio spettrale che li si respirava. La maniglia dell'ingresso sul retro era stata forzata. Con calma, la ragazza aveva schiuso la porta lasciandola aperta affinchè la luce della luna, all'interno, ne illuminasse i passi. Aveva poi acceso una candela, muovendosi agilmente nel buio, e richiuso dietro di sè l'uscio. Non temeva di esser vista, le finestre dell'abitazione erano sigillate con numerose assicelle, e la fioca luce di una candela non sarebbe di sicuro filtrata all'esterno. Il rimbombare ovattato dei passi ne accompagnò il muoversi lungo le scale, fino ad approdare ai piani superiori "Monsieur?" aveva chiamato "Qui, Camille". Adagiato a terra, su un materasso improvvisato, l'uomo stava in parte sdraiato con la schiena che poggiava alla parete. Si premeva la mano al petto, ed era facile intravedere chiazze di sangue sulla camicia. Con calma, la ragazza gli si avvicinò inginocchiandosi accanto a lui "Vi ho portato la cena. Prima, però, diamo un'occhiata alle bende". E lui, come sempre, era rimasto a guardarla incantato. Era stato un incontro bizzarro. Lei  si era affacciata alla finestra, sentendo il rumore di spari. Lui si era rifugiato nel suo giardino. Guardandola, pallida e eterea nella camicia da notte, i capelli sciolti e gli occhi sgranati, aveva pensato subito che era un bel modo per morire. Si aspettava che chiamasse i gendarmi, che svegliasse la casa. E invece...si era presa cura di lui. Lo aveva nascosto in attesa che si calmassero le acque e la polizia si allontanasse, portandolo solo più tardi in quella casa poco distante. Veniva a trovarlo ogni notte, portandogli cibo e medicando quella che era, fortunatamente, una ferita poco profonda. Dentro di sè, si era persuaso che lei si fosse convinta di avere di fronte una brava persona. E questo spiegava il perchè di tutte quelle cure amorevoli "Prima delle bende, Camille. Vorrei parlarvi un attimo" Lei aveva riabbassato le mani, incerta "Certo Monsieur" "Penso...penso sia opportuno informarvi di chi io sia" "Oh...va bene. Ma io lo so già chi siete, Monsieur" "E chi sarei io, di grazia?" "Siete Neallame Fablè". Di nuovo, l'aveva stupito. Lo sbigottiva che una ragazza di buona famiglia si trovasse di fronte un ladro di rinomata fama, come lui, senza sentirsi intimorita o disgustata. E la fissò per un pò, a labbra schiuse "Lo sapevate sin dall'inizio?" "Mais oui!" "E mi avete comunque aiutato?" "Certo" "Perchè?" "Perchè penso di amarvi, Monsieur". C'era un certo candore, in quelle sue schiette rivelazioni, nel modo smaccatamente sincero di dichiararsi. Non si erano detti più una parola, perchè lei si era di nuovo mossa a controllare lo stato delle sue ferite. Il resto della sera lo aveva passato a contemplarla, a scrutarne il profilo squisitamente femminile del volto, le labbra carnose, il bagliore degli occhi. Anche quello era, dopotutto, un bel colpaccio.

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Aveva smesso di fantasticare quando Neal, accanto a lei nel letto, aveva allungato un braccio a tirarsela vicino. Si era accoccolata contro di lui, poggiando la guancia sul suo petto, attenta a non ribaltargli il computer su cui lui stava scribacchiando qualcosa.

"Tutto ok?"
"Si, stavo pensando"
"A cosa?"
"A come staresti vestito come Fred Flinstone"
"Se vuoi ti faccio vedere come starei vestito da Lady Godiva"
"E chi sarebbe?"

Aveva smanettato un altro pò sul computer, mostrandole l'immagine di quella donna. Kim aveva riso, prima di sollevarsi quanto bastava per sfilarsi via l'abitino che indossava. Altro giro, altra corsa. 



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