Marzo 1984 - Phoenix
Norwood si era dovuto assentare per circa due settimane. Affari urgenti, e delicati, richiedevano la sua presenza all'estremo confine del territorio del branco. L'idea di rimanere senza Cassandra per un periodo di tempo cosi lungo non gli piaceva affatto. Ma gli piaceva ancora meno pensarla vittima di una sparatoria, e d'altronde sapeva che serviva un punto di riferimento per gli altri del branco. Chi meglio della femmina alpha? Erano passati due anni, da quando l'aveva portata con sè presso i Desert Dust. Lontana chilometri dalla sua casa, dalla sua famiglia, in un pack con regole e costumi differenti, era orgoglioso di come fosse riuscita a conquistarsi il rispetto delle femmine del branco e la lealtà da parte dei suoi uomini. Ciò non toglieva, tuttavia, che gli mancavano terribilmente quegli occhi deliziosamente verdi, sfacciati eppure in grado di divenire cosi dolci, nell'intimità domestica, e non vedeva l'ora di tornare ad affondare le dita nella massa scura e morbida dei suoi capelli. Spesso per gioco, immergendoci il viso per aspirarne l'odore, le sussurrava che quella era la sua notte, prima di mordicchiarle il collo e l'orecchio, specificando che col calare della sera lui era abituato a cacciare. Faceva già molto caldo in Arizona, e il vento portava con sè l'odore soffocante del fumo. Dalle vicine campagne, i contadini ripulivano i terreni bruciando sterpaglie ed erbacce. Qualcosa che un lupo come lui era in grado di sentire anche a grande distanza. Un sentore aromatico e pregnante, che finiva col pungergli la gola. Ma, mentre tirava il freno a mano della Jeep nello spiazzo davanti la propria casa. non era questo a stupire Norwood, quanto il fatto che la moglie non fosse uscita sull'uscio ad aspettarlo. Schiudendo la porta d'ingresso, e muovendo qualche passo nell'abitazione, ne aveva chiaramente sentito il profumo all'interno. Cosi come, chiaramente, capiva che c'era qualcosa che non andava, che non quadrava.
"Cassie?"
"Sono qui, vieni"
Se ne stava in piedi, lateralmente alla finestra della cucina, intenta a mescolare qualcosa in una pentola. I pantaloncini che indossava le lasciavano scoperte le gambe, in un modo che invitava lo sguardo a soffermarcisi sopra. Il top era mezzo infilato nei pantaloni, un pò troppo largo per lei, tanto che una bratellina scivolava negligentemente oltre la spalla, lungo il braccio. Ma era bianco, e di un cotone piuttosto sottile, e nella trasparenza data dalla luce si intravedevano le forme del corpo di lei, in un suggestivo gioco di chiaroscuri. Il mannaro si leccò le labbra, proprio mentre lei si girava a guardarlo, a sorridergli. Decisamente, quel genere di sorrisi, quel raro esemplare di donna, era in grado di fargli venire meno parecchi battiti.
"Scusa, non potevo mollare qui, sennò il risotto si brucia..."
"Chi se ne fotte del risott..voglio dire. Donna, chiudi quel fuoco e vieni a darmi un bacio. Non conosco cena migliore, di quella bocca"
Non l'aveva aspettata però. Si era avvicinato lui, e lei aveva fatto in tempo a chiudere la manopola del gas, prima di ritrovarsi tra le sue labbra, ridendo. Eppure, qualcosa continuava a non quadrare. Norwood aveva sniffato l'aria. Una. Due. Tre volte. Inizialmente credeva che i propri sensi fossero storditi dal fumo, all'esterno, ma adesso si era ripulito il naso e...non capiva
"Cos'hai fatto?"
"Il risotto"
"No, intendo...il tuo odore..."
Lei sorrideva, candida e innocente, ma ora era evidente che sapeva qualcosa che a lui sfuggiva, se non altro per la piega maliziosa che avevano preso le labbra
"Cos'ha il mio odore? Puzzo?"
"No. E'...diverso. E' come se avesse..."
Si chinò a sniffarla di nuovo, poggiando il naso direttamente alla gola di lei, prima di sollevarsi a guardarla corrugando alla fronte
"...qualcosa di mio. So che è assurdo ma odori di me. Non come quando ti strusci addosso, è più intenso"
"Beh ma è perchè io ho qualcosa di tuo"
Mormorò, prima di sfilarsi da lui e avvicinarsi al piano di lavoro, per mescolare l'insalata. Norwood era rimasto li in piedi, perplesso oltre ogni dire, chinando appena la testa lateralmente come avrebbe fatto un cucciolo di fronte a qualcosa di strano
"Che intendi?"
Lei si era girata, portando entrambe le mani a sciogliersi i capelli. E mentre quella notte, scura e priva di luna, prendeva possesso sul corpo di lei lambendole i seni, sfiorandole il ventre, lei aveva sollevato appena il mento in una posa orgogliosa, gli occhi scintillanti e le mani ai fianchi
"Intendo che c'è tuo figlio, dentro di me. Che c'è un cucciolo in arrivo. Forse è il caso che ti metti d'impegno, a finire quello scivolo che hai iniziato un anno fa, sul retro, perchè temo che preso ci servirà davvero"
Per qualche minuto, il silenzio regnò sovrano. Un silenzio talmente spesso, talmente denso, che i battiti del cuore di entrambi apparivano forti come campane in un giorno di Chiesa. Finchè il Mannaro non si sciolse, in una grossa, grassa risata, precipitandosi a riacciuffare la moglie per sollevarla verso l'alto, in un trionfo di gioia. Voci di corridoio, dicono che avesse gli occhi lucidi. Ma noi, questo, non lo sappiamo. Ciò che è certo è che era molto, molto felice.
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Gennaio 1988 - Denver
Luminitza era al settimo mese di gravidanza. Il pancione si vedeva chiaramente, da sotto il vestito premaman che portava e al momento, invece di riposarsi come una donna nel suo stato avrebbe dovuto fare, se ne stava a terra a ripulire il pavimento della roulotte che divideva con Ivan. Il marito stava finendo di cenare, questione di pochi bocconi, ma non perdeva tempo per lamentarsi di qualcosa
"Questa zuppa è insipida. Non imparerai mai cazzo. Sei stupida, che cazzo ti ho sposato a fare"
era il delizioso ritornello che scandiva il ritmo delle sue pulizie. Finalmente, lui si era alzato, spostandosi a recuperare la giacca e il portafogli
"Io esco. Lavami quei vestiti, mi servono"
Era stato il suo, come sempre caloroso, saluto. Lei aveva annuito, immergendo nuovamente la spazzola nel secchio d'acqua tiepida, per riprendere a strofinare con maggior vigore. Aveva atteso con pazienza di sentire il rumore dell'auto, accendersi ed allontanarsi. Poi si era alzata, raccogliendo le cose da terra, e rimettendo tutto a posto. Stanca, ma incredibilmente felice per ciò che stava per fare, si era accoccolata in un angolo del proprio letto, chinandosi a recuperare da sotto il proprio cuscino un libro. La copertina era sgualcita, di un robusto cartoncino marrone, con sopra scritte in oro le lettere "Kim". Non era semplice, sdraiarsi, con quella pancia cosi ingombrante. Ma Luminitza adorava, quel fagotto che si portava sul ventre. Le sembrava che, li dentro, la sua piccola potesse crescere al riparo dalle cose brutte del mondo. E certe volte si scopriva a desiderare che non venisse mai fuori, che rimanesse li per sempre. Piccola, si, era una bambina. Ivan, ovviamente, non l'aveva presa benissimo ma aveva concluso - clemente - che quanto meno lei non era una sterile buona a nulla, e cagare un figlio femmina era meglio che non cagarne affatto. Nei momenti in cui il marito non c'era, lei passava il tempo a leggere. No, non per lei. La cultura, per una donna traveller, non serve a nulla. Lo faceva per la piccola, perchè lei era differente. C'era il sangue di Stellan, ed i suoi geni, il suo DNA li dentro. Lui che era cosi intelligente, e colto, e bravo. La bambina era figlia sua, e non di Ivan, e dunque voleva che crescesse intelligente, preparata. Per cui, appena possibile, non faceva che parlare a quel ventre rigonfio, che covava una tenera promessa, uno splendido regalo. Di tanto in tanto, le faceva persino dei discorsetti, convinta che lei potessa sentirla
"Tuo padre aveva i capelli biondi come il grano d'estate, e quando sorrideva ti faceva credere che tutte le cose brutte che dicevano del mondo, degli uomini, in realtà non esistevano. Un giorno, quando sarai grande, ce ne andremo via da qui. Tu diventerai bella, e intelligente. Sarai un medico, proprio come lui, e vivrai in una bella casa con i cancelli dorati. E magari, riuscirai a ritrovarlo"
Gli mancava, terribilmente. Ma non se l'era sentita, di tenerlo stretto a sè, di rovinare il suo futuro. Se prima la sua vita le sembrava un inferno, però, adesso tutto le pareva più dolce. Anche l'umiliazione più grande, il dolore più acuto. E quando il cuore soffriva la nostalgia, per quello svedese dai modi gentili, la bambina dentro di lei scalciava. E le ricordava che non era sola, non più.
Uno dei suoi libri preferiti, era proprio quello di Kipling. Si era convinta che quel bambino, cosi furbo e intraprendente, potesse essere d'esempio per la propria piccina. Era di razza bianca, ma viveva tra gli indiani. Un ponte, dunque, tra due culture. Le piaceva persino che non avesse un vero finale, lo interpretava come un essere - da parte sua - padrone assoluto del proprio destino, libero persino dalla volontà dello scrittore. E quindi, spesso e sovente, proprio come quella sera lei glielo rileggeva
"Giunto all'età dell'indiscrezione aveva imparato a evitare i missionari e i bianchi dall'aria seriosa che gli chiedevano chi era e cosa faceva. Perché Kim non faceva niente, e con enorme successo! Certo, conosceva la favolosa città murata di Lahore, da Delhi Gate fino all'estremità di Fort. Se la faceva con tizi che conducevano un'esistenza più bizzarra di qualunque fantasia, ed era a sua volta immerso in una vita avventurosa degna delle mille e una notte, ma missionari e funzionari degli istituti di carità erano ciechi a tanta bellezza. Per i rioni era soprannominato "il piccolo amico di tutto il mondo" e siccome era un'anguilla, e non dava nell'occhio, spesso e volentieri eseguiva commissioni notturne sui tetti affollati per conto di bellimbusti impomatati e lustri. Si trattava, neanche a dirlo, di tresche amorose. Fin lì ci arrivava, lui che del male già sapeva tutto da che aveva l'uso della parola. Ma ad attirarlo nel gioco per il gioco, aggirarsi furtivo al buio per vicoli e canali di scolo, arrampicarsi su un condotto dell'acqua, suoni e immagini del mondo femminile sulle tettoie piatte e fughe, a precipizio di tetto in tetto, col favore delle tenebre infuocate"
Ivan era rientrato, e lei aveva sobbalzato nel letto. Era ubriaco, tanto per cambiare. E, giusto per non venire meno alle tradizioni di quella famiglia, sbraitava con lei
"Che cazzo ti leggi, eh?! Sei stupida, a cosa cazzo ti serve uno stupido libro. Non ci laverai meglio i piatti, e di sicuro non cucinerai meglio il tuo fottuto pranzo. Ho sposato un'imbecille idiota, che invece delle cose importanti pensa a stronzate come a leggere e..."
Lui continuava a sbraitare, e ne avrebbe avuto ancora per un pò. Luminitza sapeva che il modo migliore, per farlo finire il prima possibile, era proprio quello di rimanersene zitta e buona e di richiudere il libro. A malincuore. Poco prima di richiudere la copertina e di rimetterlo sotto lo scrittoio, gli occhi erano riusciti a cogliere - però - un'ultima frase.
"Non c'è peccato più grande, dell'ignoranza" - disse il Colonnello Creighton.
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Bon Temps - Maggio 2014
Le era venuto il ciclo. E se in passato, un passato che adesso le veniva da collocare a circa qualche secolo di distanza da quello in cui si trovava adesso, questa comparsa cruenta le aveva sempre dato una certa sensazione di sollievo, stavolta il cuore si era macchiato di sconforto. Se ne era rimasta per un pò in bagno, a fissare gli slip con aria accusatoria, prima di darsi una ripulita e tornare da Neal. Senza dire una parola, gli si era sdraiata accanto, voltandogli le spalle. Aveva bisogno di smaltire la delusione nel silenzio dei propri pensieri, e d'altronde era ancora molto, molto presto. Si era svegliata a mattina inoltrata, c'era l'odore del caffè, e c'era anche il letto vuoto. Tanto per cambiare, Neal era già andato via. Ultimamente, per lei, avere un marito significava vederlo sfrecciare via dalla porta, per poi riapparire solo la sera tardi. Ma d'altronde, era il prezzo da pagare per una settimana piena nel Bel Paese. Italia. Solo l'idea del viaggio le metteva addosso un incredibile buon umore. Aveva tirato fuori le valigie, e cominciato a mettere le loro cose da parte, scegliendo con cura i capi da portare. La casa, quindi, si era riempita di monticelli di vestiti, accessori, oggetti che potevano servire a entrambi. Dimentica, del magone di qualche ora prima, si era alzata per spostarsi in cucina a servirsi il caffè che lui le aveva preparato. Solo che...sorpresa. Sulla penisola, assieme alla caffettiera, c'era anche un'allegra piramide di ciambelle. E una rosa, li accanto. Anzi, più che una rosa, era un bocciolo. Ben chiuso, compatto, non era possibile vederne neppure il colore dei petali. Non era tagliato, ma anzi aveva tutte le radici attaccate. Inutile precisarlo, c'era terriccio ovunque, sul piano della cucina quanto sulle mattonelle. Nell'afferrare una ciambella, per portarla alla bocca, Kim aveva acciuffato e girato il bigliettino, leggendo il breve messaggio che il mannaro aveva avuto cura di scriverle sopra
"In attesa che la rosa sbocci, si può sempre continuare a curarla. E tu lo sai, quanto mi piace curarti a modo mio. Specie quando hai voglia di tante punture in quel bel culetto sodo. Stai tranquilla, Neal"
Il cuore le si era sciolto, o forse era solo la tensione di poco prima, ad essere andata via, tutta la delusione sentita solo poc'anzi. Condensata, nella lacrima commossa che ora le accarezzava la guancia, si era allontanata da lei e dal sollievo che ora le dilagava in petto, respiro dopo respiro, spargendosi a terra. Tra il terriccio, sul pavimento.
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"Ripetimi perchè stamattina ti sei interrotto mentre mi succhiavi - da Dio tra l'altro - e dopo aver letto un messaggino dei tuoi amici pelosi mi hai lasciata sul letto a cosce aperte, grazie u.u"
"Hum amore, ma comunque ti ho detto di non muoverti e rimanere in quella posizione che avrei fatto prestissimo no? Quando torno ricomincio tutto d'accapo..non sei contenta? :3 Beh, a quanto pare Gregor stara' via per un bel po' ed ha lasciato le redini del branco a me e Astrid, quindi possiamo dire che sono una sorta di..vice. Oh, ti avevo detto che avrei spaccato culi!"
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Tornando a casa, quella sera, Neal sapeva che gli sarebbe toccato un compito ingrato. La luna di miele andava rimandata, e di certo non era contento, ma a farlo sentire sottosopra era l'idea che Kim potesse rivolgergli di nuovo una certa occhiata, delusa e ferita, che utilizzava di rado ma che era davvero orribile da sentirsi addosso. Avrebbe preferito staccarsi un braccio a morsi, piuttosto che vederle quello sguardo. Ma, d'altronde, non poteva fare altrimenti. Con la nuova posizione ricoperta nel branco, c'erano un mucchio di impicci da sbrigare e di certo non poteva defilarsi ora che il suo ruolo si era alzata, di cosi tanto. Doveva rimanere, e dimostrare il proprio valore, spianarsi la strada per ciò che aveva in mente, in un futuro neanche troppo lontano. Come sempre, quando si trattava di dirle cose spiacevoli, non si era preoccupato di organizzarsi mentalmente dei discorsi. Come sempre, ora che si trovava a girare la chiava nella toppa di casa, si malediceva per non averci riflettuto un pò prima. C'era un delizioso odore di tacos, segno che la moglie era passata dal messicano. E la tv era stoppata all'inizio di un film, subito dopo i noiosi titoli di presentazione. Probabilmente, mandata avanti in attesa che venisse lui.
"Kim...?"
"Sono in camera da letto, mi dai una mano?"
"Una mano per cosa?"
Nello spostarsi, però, di stanza in stanza, aveva notato tante piccolezze. I vestiti, gli oggetti, le cose che lei aveva cominciato a prendere per il viaggio, erano sparite. La casa era di nuovo ordinata, e linda. Cioè, linda lo era sempre, ma ora non sembrava più che stessero per partire da un momento all'altro. Una volta sull'uscio, si era trovato la scena di Kim, in piedi, di fronte l'armadio, ansante e sudata, con ai piedi una delle valigie più grandi
"Per favore, la metti tu lassù? Non mi va di concentrarmi di nuovo, è tutto il pomeriggio che uso i miei poteri, io e Offa siamo stanche"
Lui però, era rimasto fermo. Lei aveva capito, prima ancora che lui gliene parlasse. Non aveva frignato, protestato, nè assunto un'espressione addolorata. Con la solita, spiccata, praticità aveva rimesso tutto a posto, di nuovo, senza fiatare. Lui si era fermato un altro istante, a guardarla in silenzio , poi si era avvicinato a lei e l'aveva stretta tra le braccia, baciandola sul collo, sussurrando
"Partiremo presto"
"Lo so"
Aveva risposto, lei. Non c'era bisogno, di aggiungere altro a parole, perchè erano stati gli occhi di entrambi a parlare
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Comincio a pensare, con sempre maggiore insistenza, che i tarocchi di Hallan non siano stati incartati male. La Stella sfavorevole mi appare, ora, con tutta la sua nefasta essenza. E tra i molteplici significati che si possono associare, ad un simile arcano, io ho trovato quello che più si adatta alla mia situazione. No, non è il tradimento, nè la mancanza di affetto tra noi due, ciò che la carta mi voleva suggerire. Ma il distacco, che si sta creando. Qualcosa di puramente fisico, per esigenza di cose. Neal non c'è quasi mai, preso com'è dal lavoro e dal branco, da questo suo nuovo ruolo. Ed io ne soffro, terribilmente, la mancanza. Mi spiace non averlo intorno, e vorrei tanto incatenarlo in casa, specie quando parte all'alba e so che non tornerà prima di sera. E' questa, la premonizione dell'Arcano. Ma so perfettamente che questo non significa che il sentimento tra di noi sta mutando in peggio. Anzi. Per forza di cose, se è impegnato, non può starmi dietro tutto il giorno. E pur sentendo la mancanza dei suoi messaggi, delle sue premure, so che deve farlo, e che tutto questo è necessario. Non mi sento abbandonata, tradita, messa da parte. Anche perchè lui fa di tutto, per essermi il più vicino possibile. Finisce persino col regalarmi un intero pomeriggio al lago, soli io e lui. Ha cucinato per me, mescolando assieme tutto ciò che gli piace, e dandogli il mio nome. Piccoli gesti che mi fanno sentire davvero felice, e a cui mi aggrappo con forza nell'attesa tra un suo ritorno e l'altro. Quando possiamo, ci prendiamo del tempo per noi, ed è come se mi dessero ossigeno dopo settimane di apnea. E' finito col diventare lui, la mia aura, che buffo. Come se non bastasse, ora è Luna piena. E cosi, ciò che più amo e che mi viene negato di giorno, per tre giorni mi verrà negato anche di notte. Ne approfitto per sbrigare piccole faccende in casa, per ripassare vecchi e polverosi testi, per effettuare rituali di purificazione dei miei strumenti. Riempio le ore, facendo altro, consapevole che io rimango pur sempre viva, anche senza la sua presenza. Ho il mio lavoro, i miei amici, i miei interessi. Eppure, tra me e me, non faccio che ripetermi quanto sia insipido il mattino senza fare colazione insieme a lui. L'Italia dovrà aspettare, ma francamente non mi importa. Mi ha portato già, in luna di miele, in un modo che neanche io so ben spiegarmi. La scorsa domenica, passata a rimbeccarci sul cane e a strusciarci l'uno addosso all'altra, in un rincorrersi di provocazioni e moine, è stata più che sufficiente. Quanto al branco...mi ha detto di essere il vice di Astrid. Ovviamente, non provo piacere nel saperlo sempre vicino a lei. Specie di Luna Piena. La parte più zingara di me, sussurra ancora alle mie orecchie che una pelliccia di lupo grigio mi starebbe d'incanto. La parte più razionale, di me, mi bisbiglia di sbarazzarmi del corpo una volta elettrizzato al punto giusto. E poi...poi c'è la gran parte, dei miei pensieri. Che si fida di Neal, e che ripone in lui la più ampia delle certezze. In tv, l'altra sera, facevano vedere un programma sugli zingari. C'era un addio al celibato, e il futuro sposo faceva il porco con delle donne. Mi chiedo se anche lui, quando le altre gli fanno gli occhi dolci, sta al gioco o le allontana. Ha un carattere cosi particolare, che proprio non saprei. Se ne sta tranquillamente, col pisello al vento, e quando io scopro appena un pò di più del solito in pubblico comincia a urlare come una vecchia frequentatrice di panche da Chiesa. Mercoledì inauguriamo la sala da the, al negozio, ed io dovrò leggere i fondi alle signore che verranno. Anche stavolta, lui non ci sarà. Si, lo dico sospirando, perchè stanotte sono malinconica, perchè invidio terribilmente Astrid che a quest'ora gli starà correndo accanto, dietro qualche cervo, perchè trovo ingiusto che i suoi orribili clienti stupidi se lo possano godere tutto il giorno, spesso in giacca e cravatta, ed io no. Stasera sono egoista.
Ma, forse...forse posso fare qualcosa, per avvicinarmi a lui, anche se la luna continua a brillare alta, nel cielo.
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Kim ha aperto le finestre, e richiamato a sè i propri poteri. L'aura si è condensata in spire azzurrine, attorno a lei, mentre il vento si alzava, nella notte tiepida di una Primavera che volge al termine, confondendosi con le parole di lei.
"In qualunque posto siamo, in qualunque posto andremo, io e te rimaniamo insieme, nostri. Per sempre"
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